| Posto questo articolo che ho trovato in giro, spero possa aiutare a capire meglio.
di Riccardo Frugone, inviato di Rainews24 in Darfur
Nonostante questi ultimi tempi se ne parli molto, non tutti sanno cosa significhi questa parola, come ha ben dimostrato il servizio delle “Jene” interrogando a caso gli onorevoli con domande di cultura generale. Se per qualcuno il Darfur è "uno stile di vita", come ha risposto un deputato, questo è lo stile di vita di milioni di persone in Africa centrale. In Ciad, Repubblica Centrafricana, Congo, Uganda, Somalia ed anche naturalmente in Sudan.
Il Darfur da qualche anno è diventato l’emergenza numero uno e sui media si parla solo di questa nuova tragedia africana, dimenticando le tante altre aree di crisi. In Africa centrale ci sono milioni di profughi in fuga un pò in tutte le direzioni. I focolai di conflitto sono tanti, che si fugge da una guerra per arrivare in un’altra. Dal Darfur verso il Ciad, per esempio. Ma anche dal Ciad verso il Darfur. I profughi si rifugiano in campi al collasso, dove gli aiuti arrivano a singhiozzo e vivono in condizioni igieniche inimmaginabili. In molte zone sono in corso epidemie di colera, e non si riescono a trovare vaccini e medicine neppure per combattere piaghe antiche come la malaria, che continua ad essere la causa maggiore di mortalità infantile in Africa. Un’unica grande emergenza umanitaria che ha cause lontane e complesse, nonostante le semplificazioni di comodo offerte spesso dai media: conflitto etnico o religioso, a seconda dei casi.
In Darfur, però, sono tutti musulmani, non si può dunque parlare di uno scontro tra arabi e cristiani. Quanto al conflitto etnico nella regione, sono in guerra da decenni un pò tutti contro tutti e le alleanze cambiano facilmente. Parlare di conflitto etnico religioso spiega poco o nulla Credo che il dovere di ogni giornalista sia cercare di capire e spiegare le cause di questa crisi, anche domandandosi perché solo il Darfur faccia notizia.
Sui numeri stessi dell’emergenza non c’è chiarezza. Come per il bilancio delle vittime del conflitto negli ultimi tre anni: migliaia, decine o centinaia di migliaia. Chissà? Le Nazioni Unite la definiscono "la piu’ grave emergenza umanitaria in atto nel mondo". Parlano di 300.000 morti e tre milioni di profughi. La risoluzione 1706 dell'Onu prevede l’invio di 20.000 caschi blu. Il Sudan rifiuta, ne ha facoltà per una clausola inserita da Cina e Russia. Bush e Colin Powell, nel 2004, hanno parlato di genocidio. Si è ipotizzato anche un intervento Nato che in questo caso diventa possibile. La commissione d’inchiesta, guidata dal giudice italiano Antonio Cassese, ha riconosciuto i crimini di guerra e contro l’umanità, ma ha stabilito che di genocidio non si può parlare.
Lo scontro con gli USA e il difficile rapporto con le Nazioni Unite. I conflitti interni: autonomie e guerra di classe.
Il presidente sudanese Al Bashir dice che il suo Paese non diventerà un nuovo Iraq. Sostiene che gli USA vogliono destabilizzare il Sudan per giungere ad un cambio di governo, e che utilizzano le Nazioni Unite per questo scopo. Jan Pronk, l’inviato di Kofi Annan, è stato dichiarato "persona non grata" ed espulso, proprio con l’accusa di ingerenza negli affari interni del Paese. Non dimentichiamo che oltre il 50% degli aiuti umanitari dell’Onu, proviene dagli Stati Uniti.
Le violenze sono aumentate negli ultimi anni soprattutto a causa degli scontri in atto tra tra il Governo di Khartoum e i gruppi ribelli del Darfur (SLA, Sudan Lliberation Army e JEM, Justice Equality Movement), al quale prendono parte anche i cosiddetti Janjaweed, i "diavoli a cavallo", miliziani nomadi spesso utilizzati dal governo sudanese contro i propri nemici e accusati di crimini contro l’umanità. Tanto che, recentemente, Al Bashir si è impegnato a disarmarli. Sono stati ad esempio usati durante la guerra civile contro il Sud Sudan di Garang. Un conflitto durato 20 anni, appena concluso con la firma del CPA, Comprehensive Peace Agreement del gennaio 2005. E’ molto probabile che i gruppi ribelli del Darfur ricevano grossi aiuti dal vicino Ciad, paese amico dI USA e Francia, e che il governo sudanese ("paese canaglia"), per contraccambiare dia una mano ai ribelli del Ciad.
Si puo’ parlare anche di una guerra di classe (come l’ha definita il collega Massimo Alberizzi, inviato del Corriere della Sera.). La guerra dei poveri contro i ricchi. I poveri sono gli africani, diseredati ai confini del deserto, che lottano per un accesso alle risorse e per poter far sentire la loro voce. I ricchi sono l’elite araba che comanda nel Paese.
L’ accesso alle risorse. La lotta per l’ acqua e quella per il petrolio
Un'altra causa di questa crisi, la più antica, è la lotta per l’acqua tra tribù di sedentari e nomadi. Il processo di desertificazione in corso negli ultimi decenni, per l’aumento della temperatura del pianeta, si fa sentire anche così.
E poi la causa ultima, ma forse la più importante: il petrolio. Sembra ormai certo che questa regione arida ai confini del deserto ne sarà in futuro ottima fornitrice. Negli ultimi anni la produzione annua è arrivata a 600.000 barili di greggio e, secondo gli esperti, crescerà ancora di molto. Il petrolio del vicino Ciad, grazie al Fondo Monetario Internazionale e alla Esso, prende la rotta degli Usa e dell‘Occidente attraverso l’oleodotto che lo porta sull’Atlantico. Il petrolio del Sudan invece, che si estrae per ora solo in Sud Sudan (venti anni di guerra civile, centinaia di migliaia di morti), è finito soprattutto nelle mani dei cinesi, che hanno approfittato dell’embargo statunitense.
C’è un oleodotto di 1600 km che va dal Kordofan, regione confinante con il Darfur, fino al Mar Rosso e da lì verso l’Asia. Guardando una cartina ci accorgiamo subito che il Darfur sta proprio nel mezzo e in poche centinaia di km di nuovo oleodotto, il petrolio se ne va facilmente da una parte o dall’altra. Verso gli Stati Uniti o verso la Cina. Forse proprio qui sta la causa principale dello scontro in atto sul Darfur. Mettere le mani sulle future risorse petrolifere di quest' area.
Le cause di questo conflitto, come abbiamo visto, sono molte. Dalle rivalità tra etnie fomentate dall’uno e dall’altro, alle armi fornite con generosità un po’ a tutti in cambio di temporaneee alleanze. Dall’antica lotta per l’acqua tra le tribù, a quella più recente per il petrolio. Un mix esplosivo che ha molte somiglianze con i tanti conflitti in corso negli altri paesi africani.
Che sia in atto una gravissima emergenza umanitaria è certo, così come sono certe le violenze ai danni della popolazione civile: villaggi bruciati, stragi, donne violentate e bambini rapiti. Lo scenario tragico di tutte le guerre. Ma è forte il sospetto che questa emergenza venga strumentalizzata un po’ da tutti. Dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie che la utilizzano come immagine forte per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale e raccogliere fondi che non bastano mai. Poi dalle parti in conflitto, dai gruppi ribelli per acquisire visibilità internazionale e far conoscere la propria causa. Dal governo di Khartoum, su due fronti: quello interno per accusare di complotto internazionale e far piazza pulita delle istanze autonomiste, quello esterno per regolare vecchi conti con il vicino Ciad. E, al di sopra di tutti questi, non si puo’ ignorare l’interesse delle potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, che vogliono mettere le mani sulle risorse di quest' area.
L’ intervento della comunita’ internazionale. La crescita del fondamentalismo e la macchina degli aiuti
Il Sudan è un paese povero con infrastrutture fragilissime, molte delle quali ereditate dagli inglesi oltre 50 anni fa, come la ferrovia e qualche ponte sul Nilo. Uno stato enorme, grande come l’Europa occidentale, dove vivono trenta milioni di persone. Uno stato relativamente giovane che è rischioso valutare solo con il metro della nostra democrazia. Bisogna stare sempre molto attenti ai progetti di esportazione della nostra democrazia, come in Iraq e Afghanistan, perché i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
A mettere in un angolo il governo di Al Bashir si rischia di fare il gioco dei fondamentalisti. Anche qui, come negli altri paesi arabi, il potere degli integralisti è in preoccupante crescita. Più il Governo di Khartoum si sente sotto pressione internazionale e più cresce l'influenza del NIF, il National Islamic Front di Al Turabi, che ha imposto al paese la Sharia. Negli ultimi anni i gruppi fondamentalisti si muovono sempre più arroganti ed impuniti. Pochi mesi fa, Mohamed Taha, direttore del quotidiano Al Wifaq, è stato rapito da uomini armati che lo hanno prelevato dalla redazione mentre era al lavoro. Il suo corpo, decapitato, è stato ritrovato pochi giorni dopo in strada. L’accusa: aver scritto un articolo giudicato offensivo nei confronti del profeta Maometto.
Per quanto riguarda gli aiuti, indispensabili, che qui arrivano da tutto il mondo, si tratta di un fiume di denaro che serve in maggior parte a mantenere la costosissima macchina umanitaria. A proposito di aiuti, è balzata agli onori della cronaca la vicenda italiana di "Avamposto 55", che fornisce una buona chiave di lettura per leggere il sistema degli aiuti internazionali: una struttura sanitaria costruita con i soldi della cooperazione italiana e con i fondi raccolti attraverso il 55° Festival di Sanremo, quello di Bonolis. Risultato: al posto del grande ospedale promesso, un modesto ambulatorio. Vicenda tutta da chiarire, come ha mostrato il programma di Raitre “C’era una volta”. Resta anche da valutare il ruolo di Barbara Contini alla quale il Governo di Berlusconi affidò il compito di gestire la cooperazione italiana in Sudan.
Gli aiuti internazionali dovrebbero essere trasparenti, prima ancora che efficienti. Perché, altrettanto e forse più grave dell’indifferenza verso tragedie come quella del Darfur, è la strumentalizzazione di chi usa la sofferenza di questa gente per i propri fini personali.
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